Tutto sembra andare per il meglio nella vita di Precious Ramotswe, proprietaria della Ladies’ Detective Agency N. 1. Finché un giorno il signor Polopetsi, timido collaboratore part time dell’agenzia, non presenta il caso di una donna che ha perso il lavoro, licenziata, sembrerebbe, senza giusta causa. Tuttavia, le apparenze spesso ingannano, e mentre la signora Makutsi porta avanti l’indagine con vigore, convinta dell’innocenza della lavoratrice, ex studentessa, come lei, della idolatrata Scuola per Segretarie del Botswana, la signora Ramotswe è in preda a una profonda tristezza, perché continue rivelazioni sembrano far emergere verità che lei mai avrebbe creduto possibili. Verità che potrebbero addirittura intaccare l’amore sconfinato che Precious ha sempre provato per il padre, il fu Obed Ramotswe. E poi la ricomparsa in città del suo ex marito, il complotto contro il negozio Double Comfort di Phuti Radiphuti, marito della signora Makutsi… Davvero troppi problemi perché Mma Ramotswe, per quanto solida di carattere e tradizionale di corporatura, possa risolverli da sola. Per fortuna, può contare sull’incrollabile amicizia della signora Potokwani, così che la calma e la serenità riusciranno a tornare nel placido mondo di queste donne straordinarie. Il tè è servito, la torta anche, e la vita continua.
Trent’anni di fuga da tutto – da una condanna, da se stesso, dalle responsabilità verso gli altri – per diventare un mercenario, un avventuriero senza etica. Ma l’incontro con una ragazza rapita dall’Isis riporta alla luce il rimorso per tutto il male fatto: non un amore, ma la speranza di un’impossibile redenzione. Un’odissea individualistica che, tra la Milano degli anni Settanta e quella del terzo millennio, tocca il deserto siriano, le rovine della guerra civile, i palazzi di cristallo di Beirut, i vicoli di Istanbul, il centro storico di Brescia, l’India. Un’avventura mozzafiato e sorprendente.
La giovane Miss Helena eredita dal padre la proprietà di River Hall e decide di affittarla per ricavarne una buona rendita. La casa ha un bell’aspetto ed è in buone condizioni, perciò gli inquilini non tardano a farsi avanti. Tuttavia, nessuno si ferma per più di qualche settimana e molti lasciano l’immobile nel giro di qualche giorno. Ci sono tutti i segnali della tipica casa infestata: rumori sospetti e improvvisi, porte che sbattono, luci che si accendono o si spengono, strane apparizioni senza un motivo apparente. L’ultimo occupante scappa e la zia di Miss Helena decide di assumere un avvocato per risolvere la questione una volta per tutte. Petterson, l’impiegato del procuratore, in cambio di una cospicua somma di denaro, va a stare nella casa per verificare con i propri occhi che cosa stia davvero accadendo. Il romanzo inizia come una storia di fantasmi tradizionale dell’epoca vittoriana, e nella seconda parte si evolve assumendo sempre di più il carattere di un romanzo giallo, man mano che Petterson indaga sull’identità del fantasma dell’uomo assassinato nella casa di River Hall.
“Smettetela di farci la festa” racconta di donne per parlare di società e della cultura in cui ognun* di noi cresce, ingabbiat* in ruoli stereotipati funzionali a quel sistema di potere alla base delle relazioni umane che alimenta discriminazioni, disparità e violenza. Maschilismo, sessismo, molestie sono riflesso di uno stesso squilibrio che pone gli uomini in posizione di privilegio e le donne in condizione di perenne affanno nella lotta per la parità. Uno squilibrio che è manifesto nell’educazione che riceviamo, nelle discriminazioni sul lavoro e negli studi, nella differenza di retribuzione, nel linguaggio, nelle violenze di genere, nei femminicidi. “Smettetela di farci la festa” approfondisce quindi il tema della violenza e del linguaggio che usiamo nel raccontarla. Linguaggio che si fa complice perché veicola e rafforza una narrazione sbagliata della sopraffazione, che abbiamo tutt* interiorizzato. Un linguaggio assolutorio, che nell’assolvere il criminale minimizza il crimine, nel relegare alla follia individuale deresponsabilizza una comunità che non fa i conti con la propria identità e i propri valori, con il proprio sistema di significati.
Marlena Vichi è una musicista di successo, direttrice d’orchestra e docente presso il Conservatorio di Napoli. Sposata da diverso tempo con un suo ex maestro più grande di lei, non disdegna di allacciare relazioni discrete con alcuni dei suoi studenti. L’ultimo in ordine di tempo minaccia di rendere pubblica la loro storia, ma prima che possa portare alla luce il legame clandestino succede qualcosa di drammatico. Andrea Martino è un commissario in pensione, pronto a mettersi ancora al servizio della Polizia.
Viene coinvolto nella morte sospetta di una bambina avvenuta qualche mese prima, e si troverà anche al centro della vicenda di Marlena.
Due storie che si sovrappongono e si muovono sullo scenario di una Napoli continuamente in bilico tra la bellezza e l’orrore, e quelle verità nascoste da tempo che finalmente vengono rivelate.
Sono numerosissimi i lettori che hanno seguito e si sono appassionati alle indagini del giudice Petri, magistrato ormai in pensione che però non riesce a stare lontano dalla Questura di Brescia e dal suo amico, il commissario Miceli. E si sono affezionati a questa figura di uomo di legge rigoroso, ma capace di ascoltare le persone e le loro ragioni. Ma com’era Carlo Petri agli inizi della sua carriera? A questa domanda, e risalendo anche agli anni degli studi, risponde il racconto con il quale Gianni Simoni ha deciso di fotografare il momento in cui al giovane sostituto viene affidata la prima indagine: un caso apparentemente banale e squallido di violenza domestica, che a poco a poco si trasforma in qualcosa di assai diverso. È una vicenda tristemente semplice eppure decisiva, sia perché segna la formazione di uno stile di indagine, sia perché Petri incontra per la prima volta proprio il commissario Miceli e fa la conoscenza di una giovane professoressa universitaria di letteratura che si chiama Anna… Completa il volume, in un’ideale forma di rispecchiamento, quella che al momento è l’ultima indagine di Petri, a fianco ancora una volta del commissario Grazia Bruni.
DB- Diamo un caloroso benvenuto su Giallo e Cucina ad Alessandro Reali, in libreria col suo romanzo edito Fratelli Frilli. Sul Naviglio si uccide così, e partiamo subito con la prima domanda, questa nuova serie dedicata al commissario Caronte è ambientata nella Milano anni 60 dove prende piede la criminalità organizzata, specializzata soprattutto in furti e rapine, ci descrivi questo personaggio e che ricordo hai di quegli anni seppur eri piuttosto piccolo, ci sveleresti qualche aneddoto?
A R- Buongiorno e grazie dell’invito, a te e a a tutti gli amici di Giallo e Cucina. In effetti io, essendo nato nel 1966, non posso ricordare direttamente il periodo storico di cui parlo. La decisione di raccontare quella Milano, però, è dovuta all’interesse che ho sempre avuto, sia per la città che per il periodo storico. Interesse dovuto prima di tutto ai racconti di mio padre, scultore, che frequentava Brera, ai dischi di Gaber, Svampa e Jannacci che ascoltava, ai libri che in seguito ho letto, in particolare il Ponte della Ghisolfa di Testori (da cui Visconti ha tratto il magnifico Rocco e i Suoi Fratelli, dramma di una famiglia povera proveniente dal sud) prima di incontrare il grande Scerbanenco con le sue storie nere milanesi. Caronte nasce in questo contesto. L’idea l’avevo in testa da molti anni. Il personaggio doveva essere un figlio del popolo vagamente somigliante a Jean Gabin, burbero e deciso, appassionato di calcio, frequentatore di giornalisti eccentrici in osterie e cabaret, con amici nella vecchia malavita meneghina: la ligera, quindi in antitesi con l’immagine classica del poliziotto (soprattutto nell’Italia di allora), in contrasto perenne con i suoi superiori. A fargli da specchio, in un certo senso, c’è la sua fidanzata, Luisella, libraia elegante e colta, figlia della buona borghesia progressista milanese, che fin dall’ottocento ha significato molto per lo sviluppo della città e non solo.
DB Sul Naviglio si uccide così è ambientato nella Milano anni 66 dove si sviluppa la microcriminalità nelle zone di Lambrate, Giambellino, Quarto Oggiaro che le sarà attribuito il nome di Ligera, inoltre vi è la prostituzione nelle case di tolleranza e la protagonista di questa storia è Betty, una ragazza caduta nel mondo della droga, hai tratteggiato alla perfezione questo personaggio che emozione hai provato nel raccontarci questa storia che appartiene a una delle tante pagine della cronaca nera?
AR- Per scrivere questa storia (come faccio sempre) mi sono documentato sui giornali dell’epoca e sui libri riguardanti il tema. Se, nel Giallo della valigia di Piazzale Lodi, mi ero concentrato sui movimenti politici che hanno segnato tragicamente gli anni 60 e 70 del 900, qui mi dedico alla criminalità che muta irreversibilmente. La figura di Betty possiamo avvicinarla a certi personaggi di Scerbanenco. E’tragica e disperata al tempo stesso. Persevera nei suoi errori perché sopraffatta dal dolore mentale, da cui fugge attraverso la droga. Spero di averla raccontata nel tono giusto. In quegli anni, in seguito alla legge Merlin, le case chiuse ufficiali sparirono, ma ovviamente non smisero di esistere. Le professioniste si riversarono in strada, oppure in appartamenti privati spesso gestiti dalla nuova malavita. Molte ragazze provenienti da ambienti diversi, negli anni del boom, si dedicarono al mestiere più antico del mondo pensando di fare fortuna in fretta, finendo spesso in gorghi da cui non sarebbero più uscite.
DB un altro personaggio ben caratterizzato è la figura di Rita Perbellini, una donna molto bella dalla doppia identità, un’altra figura enigmatica che troverà la morte. Ci descriveresti questo personaggio?
Un’operatrice sanitaria viene assassinata in circostanze scabrose e con modalità strambe nel corso di un incontro carnale clandestino sul posto di lavoro. È la vigilia di Capodanno e la Questura di Teramo è a corto di personale. La PM in servizio, un’ultracinquantenne di intenso glamour e raro fiuto investigativo, incarica l’ispettore capo Vera Ferri della conduzione delle indagini. Reduce da una relazione abusiva, la Ferri ravvisa presto nel delitto la mano di uno psicopatico. Ad affiancarla nell’inchiesta, l’incantevole ispettore Stella Bellosguardo, appassionata di film horror, e lo psichiatra forense Massimo Dejana, clinico brillante e nerd incallito. Il commissario Mariano Forandola, perdutamente innamorato di Vera e al momento in malattia, collabora dietro le quinte con la sua sostituta. La scena del delitto è una vecchia scuola trasformata in istituto di riabilitazione. Un edificio disarmonico, labirintico, che fronteggia la serra monumentale adattata a convento in cui risiedono quattro consacrate decisamente sui generis: le Suore Gertrudine, che non disdegnano la cura di sé.
25 dicembre 800. Sono passati tre secoli da quando Roma ha cessato di esistere: nella pur turbolenta storia della Città Eterna, nessuno ormai immaginava che ci potesse essere un altro imperatore. E invece, nel giorno di Natale di un secolo appena nato, il Papa sta per proclamare un nuovo sovrano. Un nuovo Cesare. A ricevere la corona è Karolus Magnus, Carlo Magno, primogenito della stirpe dei Carolingi. Come è arrivato Carlo su quel trono? Per qualcuno che si è meritato, ancora in vita, l’appellativo di Magno la risposta dovrebbe essere scontata. E se invece la strada che porta a quella notte di Natale fosse lastricata non solo di coraggio, battaglie e trionfi, ma anche di complotti, intrighi e sangue? Se tra i fasti delle vittorie si nascondessero troppi segreti? Attingendo a una sterminata storiografia, Franco Forte ricostruisce in forma di romanzo le gesta del celebre sovrano, dalla primissima infanzia agli ultimi, intensi istanti di vita, immergendoci nel racconto di un’avventura irripetibile, segnata da sfide, successi e amori, ma anche da dubbi, rimpianti, dolorosissime perdite e ancor più struggenti addii. Che cosa si agitava nel cuore di Karolus, il grande condottiero, quando si preparava a diventare reggente unico del Sacro Romano Impero? Quali sogni – e quali incubi – ne popolavano l’animo?
Pepe Carvalho, l’investigatore privato, nato dalla penna di Manuel Vázquez Montalbán è uno dei personaggi che ho amato anche se brucia i libri. In Italia, tradotto magistralmente da Hado Lyria, mi permetto questa considerazione perché negli anni ho letto tutti i libri anche in lingua originale ed ho apprezzato la traduzione, è uscito sempre per la casa editrice Feltrinelli. Il libro del quale vi parlo, pur essendo il primo della serie, è uscito in Italia nel 2001. La maggior parte dei libri su Carvalho era già stata scritta e pubblicata, Montalbán morì nel 2003 e furono soltanto tre i libri postumi pubblicati. Fui molto contenta di conoscere gli inizi di Pepe Carvalho, il cui passato come agente della CIA era conosciuto, sperando di scoprire qualcosa in più di questo personaggio. Inizialmente il libro mi spiazzò, non c’entrava nulla con il personaggio che amavo, non era un giallo, dalla copertina si capiva di cosa trattasse, era pieno di citazioni, surreale, mescolava fatti storici con la fantasia. A pelle sentivo che era una scrittura sperimentale e in effetti una volta finito capii che andava preso per quello che era, un libro dove Montalbán sovvertiva tutti i registri della scrittura, mescolando abilmente generi e stili. In un’intervista a Montalbán lessi che dopo una sera in compagnia del suo amico José Batllò e varie bottiglie decise di scrivere una storia semplice di guardie e ladri, un po’ all’americana.
Trama
Qui nasce Pepe Carvalho, super agente segreto gallego con licenza di uccidere, ex iscritto al partito comunista spagnolo e ora membro della Cia. John Kennedy è appena diventato presidente e il suo clan vive nel cosiddetto Palazzo delle Sette Galassie, una meraviglia architettonica sospesa fra le nubi, sopra la Casa Bianca, dove si collezionano celebrità. Finora inedito in Italia, “Ho ammazzato J.F. Kennedy”, è stato scritto nel 1970, quando per molti il sogno impossibile era uccidere il generale Franco.