I MAESTRI DEL NOIR: WILLIAM R. BURNETT

di Lorenzo Scano

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Notte fonda. Fa un freddo da cani e pioviggina. Il vento somiglia al lamento di un disgraziato agonizzante in un vicolo. Un bar malfamato nei pressi dei Docks di una città portuale. Il locale è chiuso, ma in una stanzetta sul retro, tra il fumo delle sigarette e la puzza di pesce che filtra dalla porta insieme agli spifferi, quattro uomini sono seduti a un tavolo a giocare a carte. Uno di loro ha una lunga cicatrice che gli attraversa un lato intero della faccia; un ricordo dell’infanzia violenta attraverso cui è venuto su nel quartiere italoamericano da dove proviene e da dove provengono anche gli altri giocatori, suoi amici e soci in affari, affari come il contrabbando di alcolici e il racket, ovviamente. All’improvviso, la porticina del locale si spalanca e, senza che i quattro possano anche solo realizzare quel che sta per succedere, due raffiche incrociate di Thompson – il famoso mitra dei gangster degli anni Venti e Trenta del secolo scorso – li falciano e li fanno stramazzare a terra tra i cocci di vetro delle bottiglie di whisky andate in pezzi e le schegge di legno del tavolo. Tutti noi, grazie ai miti e alle leggende cui la letteratura e il cinema gangsteristico hanno dato vita, abbiamo bene impresse nella mente sequenze come questa, insieme a tutti gli altri stereotipi, stilemmi e topoi connessi a quell’universo che ha resi famosi i nomi e le gesta di “uomini d’onore” – principalmente italoamericani, irlandesi, polacchi ed ebrei – reali e immaginari, da Al Capone a Vito Corleone e da Dutch Schultz al Noodles interpretato da De Niro in C’era una volta in America.

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