RICETTE DI CUCINA E RICETTE PER OMICIDI – 1 Parte
Articolo di Giusy Giulianini
Quando Dario Brunetti mi ha invitato a curare con Enrico Luceri una rubrica sul rapporto tra cibo e narrativa crime, la mente mi si è subito affollata di parole e immagini, un vaso di Pandora all’interno del quale gli innumerevoli autori letti fin dall’infanzia sgomitavano per dire la loro. Gialli, polizieschi, thriller, noir, tutti avevano qualcosa da proporre, con il serio rischio di rubarsi con prepotenza la parola per poi soverchiare gli altri. Meglio quindi zittirli con una severa mozione d’ordine e affrontare l’argomento su basi più generali.
La maggioranza dei personaggi che popolano l’odierna narrativa crime mangiano e bevono, come tutti noi. E se ciò rappresenta un legittimo tentativo degli autori di renderli più umani e dunque accattivanti per i lettori, è vero altresì che alcuni protagonisti mangiano e bevono più di altri: in misura maggiore quelli di area mediterranea, meno i nordici. Gli americani del nord sono più appassionati all’alcol, i latino-americani si dividono con equità tra cibo e bevute. Gli eroi della detection, “gialla” (da noi e solo da noi così ribattezzata) o poliziesca che sia, sono più inclini alla buona tavola, quelli dell’hard-boiled e del noir non la frequentano proprio, prediligendo semmai locali dozzinali, cibo spazzatura e abbondanti sessioni alcoliche.
Un altro fattore di distinzione è quello temporale: prima degli anni ’30 del secolo scorso gli investigatori non parevano così sedotti dalle lusinghe gastronomiche, sembravano anzi inappetenti o addirittura anoressici, la lotta contro il male unica loro ossessione: ne è un perfetto esempio l’Auguste Dupin di Edgar Allan Poe, protagonista dell’opera che nel 1841 segnò la nascita della detection novel, I delitti della Rue Morgue.
Per Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle il discorso parrebbe il medesimo, visto che il genio di Baker Street non poche volte si è vantato di saper resistere a un prolungato digiuno: celebre ne La pietra di Mazarino la sua lapidaria risposta alla signora Hudson che gli chiede a che ora voglia mangiare: “Alle sette e mezzo di dopodomani”. Non dimentichiamo però che Watson fa la sua prima apparizione con un aperitivo al Criterion Bar di Piccadilly Circus, seguito da un pranzo allo storico Holborn. La colazione poi, roccaforte nutritiva della classe media nel periodo vittoriano, su sessanta storie di SH viene descritta ben settantatré volte: uova, sode o strapazzate, accompagnate da prosciutto, pane tostato e caffè. In particolari occasioni però, anche il celebre detective mostra di apprezzare raffinatezze culinarie: ostriche e galli cedroni (Il segno dei Quattro), roast-beef da Simpson’s-in-the-Strand (L’avventura del cliente illustre), il pasticcio di foie gras in crosta di sfoglia (Il nobile scapolo).
Per incontrare personaggi che incarnino le figure di autentici buongustai dobbiamo però spingerci fin quasi sulla soglia degli anni ’30. Philo Vance, l’investigatore dandy di S.S. Van Dine che domina la scena letteraria nordamericana tra la seconda metà degli anni ’20 e i ’30, uomo di mondo e frequentatore dei salotti alla moda, annovera tra le brillanti qualità al suo arco quella di essere un vero gourmet e un altrettanto raffinato intenditore di vini, oltre che “l’inventore del pesce persico farcito” (La strana morte del signor Benson).
Nel 1930 però il panorama crime è sconvolto dall’irruzione di Sam Spade di Dashiell Hammet, brutale e cinico investigatore privato che si muove tra gangster, donne fatali e violenza sullo sfondo di una nebbiosa San Francisco.
Con lui e il Philip Marlowe di Raymond Chandler si apre la stagione dell’hard-boiled school americana: metropoli disumanizzate dove si succedono “gaie mattanze” e la corsa contro il male non consente pause edonistiche, tuttalpiù una sosta alcolica per accompagnare cibo spazzatura, capace solo di riempire in fretta vuoti di stomaco e di anima: patatine fritte e bistecche ai ferri; menù fissi o piatti cinesi in locali popolari o malfamati, mandati giù con una bottiglia di whisky, non importa se di qualità; magari un Gimlet, “fatto da metà gin e metà succo di lime di Rose, e nient’altro”, come sciorina Marlowe alzando il bicchiere alla salute della misteriosa donna in nero che gli siede a fianco.
E, sempre in ambito statunitense, come dimenticare il Nero Wolfe di Rex Stout, brillante autore che ha saputo coniugare taluni aspetti dell’hard-boiled americana con la detection novel all’inglese? I suoi dialoghi con il cuoco personale Fritz Benner sono altrettanti dibattiti filosofici sull’arte culinaria. Dalle raffinate pietanze preparate da Fritz alle ricette messe a punto dallo stesso investigatore, dagli spuntini improvvisati di Archie Goodwin ai ricercati menu offerti agli ospiti di riguardo,l’intero universo gastronomico di Nero Wolfe è addirittura raccolto in un saggio a firma dello stesso Rex Stout, Crimini e ricette. A tavola con Nero Wolfe.
Forse però, il primo autentico goloso nella storia della narrativa crime, è l’Hercule Poirot di Agatha Christie, lei stessa appassionata di cibo e di cucina multietnica, in ciò rivelandosi fiera cittadina di quello che ancora era l’Impero britannico. Da buon belga il piccolo detective predilige il cioccolato e le raffinatezze della cucina francese mentre detesta di cuore la “barbara” cucina albionica: eccolo quindi deliziarsi con fois gras, lumache alla francese, crema di cioccolato in tazza, pan di spagna alla crema Chantilly. Jane Marple al contrario è una paladina della tradizione inglese: tartine e dolcetti per il tea time, roast-beef, pudding, dolce di uvette passite, ciambelle con marmellata di fragole. Di cibo si gode a volontà nei sessantasei romanzi e centocinquantatré racconti della Christie e altrettanto si muore: colazioni a base di uova, pancetta e crostini di marmellata; paté di pesce alla morfina (La parola alla difesa); rognoni al bacon; ostriche alla stricnina (In tre contro il delitto); torte di pane alla banana; marmellata condita con semi di tasso (Polvere negli occhi); sciroppo di fichi sostituito con tintura per capelli (Carte in tavola); soufflé e pasta sfoglia; sogliole e crèpes; astice avvelenato; anatra ripiena con salvia e foglie di digitale (L’erba avvelenata); una torta il cui nome, Delizia Mortale (Un delitto avrà luogo), è già un manifesto. E così via.