I Maestri del giallo : Israel Zangwill

Rubrica a cura di Luigi Guicciardi

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Dopo tante puntate dei MAESTRI DEL GIALLO, redatte con impegno e disposte in ordine cronologico, mi accorgo d’aver tralasciato un nome tanto rilevante quanto dimenticato oggi dai più, e provvedo dunque a tornare sui miei passi, facendo ammenda.

Si tratta di Israel Zangwill, nato a Londra il 21 gennaio 1864 da una famiglia povera di ebrei russi emigrati e morto a Midhurst il 1° agosto 1826. Ammesso a una scuola gratuita per ebrei (la Jews Free School) di Spitalfields nella zona est di Londra, si dimostrò subito uno studente così eccellente da diventare lui stesso un docente, prima part time poi a pieno titolo, fino alla laurea conseguita all’università di Londra nel 1884 “con tripla lode”. La sua solida cultura gli permise di divenire presto un personaggio di spicco, sia per l’attività letteraria (fu romanziere, saggista e drammaturgo), sia per l’incessante impegno come leader dell’Organizzazione Sionista – intesa come movimento di liberazione nazionale – che lasciò nel 1905 per fondare l’Organizzazione Territorialista, con l’obiettivo di creare uno Stato ebraico al di fuori della Palestina.

La sua straordinaria importanza nella storia del Giallo è dovuta di fatto a un solo romanzo, The Big Bow Mystery (Il grande mistero di Bow) – pubblicato a puntate su rivista nel 1891 e in volume l’anno dopo – in cui si proponeva ai lettori, per la prima volta dopo I delitti della rue Morgue di Poe (1841), il cosiddetto enigma della “camera chiusa”, una particolare varietà di poliziesco in cui l’indagine verte su un crimine compiuto in circostanze apparentemente impossibili dentro una stanza chiusa dall’interno. E se in questo Zangwill fu preceduto da Poe (e secondo altri addirittura dal racconto Passage in the Secret History of an Irish Countess, 1839, di Sheridan Le Fanu, poi ampliato nel romanzo Uncle Silas del 1851), lui a sua volta anticipò Ellery Queen, lanciando tramite la rivista una prima sfida ai lettori, invitati a inviare per posta le proprie soluzioni puntata per puntata.

Il romanzo (in sintesi e, per ora… senza spoiler) ha inizio in un freddo dicembre di fine Ottocento a Bow, quartiere povero dell’East End di Londra, allora pervasa da gravi turbolenze economiche, in cui le guerre coloniali si mescolavano alle rivendicazioni degli strati sociali più emarginati e in cui convivevano Jack the Ripper e Sherlock Holmes. Qui Arthur Constant, un signore che ha sposato la causa dei proletari, ha raccomandato alla sua padrona di casa, la signora Drabdump, di svegliarlo alle 6.15 del mattino, perché possa fare colazione alle 7 e recarsi poi a parlare a una riunione di ferrotranvieri. La padrona, non ricevendo risposta al suo bussare e ricordando che l’inquilino la sera prima aveva lamentato un forte mal di denti, in un primo tempo suppone che abbia deciso di dormire un po’ di più, poi però comincia a preoccuparsi e alle 8.30 va a chiedere aiuto a George Grodman, un noto investigatore ormai in pensione, che abita dall’altro lato della strada. Giunto davanti alla porta e trovatala chiusa, Grodman decide di forzarla e fa così la macabra scoperta: Constant giace nel suo letto con la gola tagliata. L’ipotesi di un suicidio viene subito scartata (non c’è coltello o rasoio in camera), ma anche quella di un omicidio è inspiegabile: la stanza è chiusa a chiave e sprangata dall’interno, non ci sono porte comunicanti e il camino è troppo piccolo per farvi passare una persona. Un delitto, insomma, all’apparenza impossibile, che sconvolge l’intera città…

The Big Bow Mystery costituisce, a ben vedere, il primo Giallo effettivamente imperniato sul mistero della camera chiusa, anche se esisterebbero almeno due precedenti misconosciuti (oltre al citato Le Fanu) dovuti al francese Eugene Chavette e all’americano Thomas Bailey Aldrich. A dire il vero il critico inglese Julian Symons, nel suo saggio Bloody Murder che abbiamo avuto già occasione di citare, aggiunge un ulteriore romanzo anteriore a quello di Zangwill, cioè Nena Sahib di John Ratcliffe. Per quel che riguarda poi il capolavoro di Poe, “che è il legittimo antesignano storico di questo genere di racconto-enigma, occorre tenere presente che esso, pur offrendo da par suo un mistero di camera chiusa, non vi fa realmente perno, né la soluzione finale è incentrata primariamente sulla spiegazione di quel problema” (Di Vanni-Fossati, Guida al Giallo).

Sull’ingegnoso tema della camera chiusa, nel corso degli anni, si sono cimentati numerosissimi scrittori, alcuni sicuramente influenzati (e fors’anche condizionati) da The Big Bow Mystery: senza pretese di completezza, mi piace ricordare almeno Conan Doyle (con i racconti La banda maculata e L’avventura del piede del diavolo), Chesterton (La forma errata), Wallace (L’enigma dello spillo, Maschera bianca, II mistero della camera gialla), e via via Van Dine, Ellery Queen, John Dickson Carr, Charles Daly King,, Clayton Rawson, Anthony Berkeley (Delitto a porte chiuse), Hake Talbot (L’orlo dell’abisso), Edmund Crispin, Edward Hoch, i francesi Pierre Boileau e Paul Halter. Ma la bibliografia della camera chiusa è sterminata: il saggio Locked Room Murders and Other Impossible Crimes, compilato dallo studioso Robert Adey (Ferret Fantasy, 1979), raccoglie oltre duemila titoli – tra romanzi e racconti – che hanno affrontato questo tema, molti dei quali con risultati straordinari.

Ammiriamo ancor oggi, infatti, Il mistero della camera gialla di Gaston Leroux, così come il romanzo Le tre bare del citato Dickson Carr, che contiene anche, in un suo lungo capitolo, quella che ancora oggi rappresenta forse la più approfondita trattazione teorica sull’argomento, ripresa e ampliata da Clayton Rawson nel suo Death from a Top Hat (1938) e dal misconosciuto ma geniale Derek Smith in L’enigma della stanza impenetrabile (1953). E non mancano neppure, nella narrativa gialla, esempi di enigmi della camera chiusa che si svolgono all’aperto, dai celeberrimi Dieci piccoli indiani di Agatha Christie ai più recenti Uomini che odiano le donne di Stieg Larsson, dove la stanza chiusa, in entrambi i casi, è una piccola isola. Un’altra variante può essere data da Sangue al priorato del Maestro, già citato, Dickson Carr, in cui il delitto impossibile avviene in un padiglione circondato dalla neve e le uniche orme sono di chi è entrato, non essendoci impronte di chi è uscito. Sull’estrema attualità del tema, infine, mi permetto di ricordare i miei recenti contributi Morte di una studentessa, in AA.VV., GialloModena, Modena, Damster, 2016 e Il caso della camera chiusa, e-book, Oakmond Publishing, Augsburg, Germany, 2019.

Va ricordato infine un altro singolare “primato” di Zangwill. Nato probabilmente con intenti vagamente parodistici, The Big Bow Mystery prende le mosse (e qui… va detto) dal proposito di un poliziotto in pensione – l’ex ispettore Grodman, appunto – di compiere il delitto perfetto, Sebbene esista anche qui un precedente, quello del già ricordato Aldrich, abbiamo col Giallo di Zangwill il primo esempio evidente in cui il detective, o comunque il protagonista, è anche l’assassino. Motivo che, nonostante le evidenti difficoltà di manipolazione, verrà ripreso molte altre volte, come ha ricordato l’esperto nostrano Franco Fossati: da Robert e Marie Connor Leighton in Michael Dred Detective (1898); in The Mysterious Death in Percy Street (protagonista il “Vecchio nell’Angolo”) della Baronessa Orczy; nel Mistero della camera gialla del grande Leroux; in Cala la tela (Drury Lane’s Last Case, 1933) di Ellery Queen; mentre vere e proprie variazioni sul tema si possono considerare il celebre Dalle nove alle dieci di Agatha Christie, Delitto premeditato e Before the Fact di Francis Iles, Il pugnale del destino di Kenneth Fearing, e anche alcuni romanzi di Cornell Woolrich.

A lungo irreperibile in edizione italiana, Il grande mistero di Bow apparve per la prima volta da noi nel 1990 nei Classici del Giallo Mondadori, n. 606, nella traduzione di Leda Armstrong, a cui seguirono un’edizione Sellerio (1994, collana La Memoria, traduttore Ettore Franzi) e una Polillo (2008, collana I Bassotti, trad. G. Viganò). Quanto al cinema, The Big Bow Mystery ha dato lo spunto a tre pellicole. La prima risale al 1928 e fu firmata da Bert Glennon col titolo The Perfect Crime, mentre la seconda fu diretta nel 1934 da John S. Robertson e intitolata The Crime Doctor. La terza, infine, fu diretta da Don Siegel nel 1946, con un cast comprendente Sidney Greenstreet, Peter Lorre e Joan Lorring. Il film, The Verdict, uscito da noi col titolo La morte viene da Scotland Yard, nonostante lo scarso budget, rappresentò un esordio notevole per il regista americano, il quale, ricostruita in studio un Londra nebbiosa e inquietante (esaltata dal bianconero di Ernest Haller) governò con competenza la strana coppia Greenstreet-Lorre e impresse al film un’originale atmosfera onirica.

La bionda di cemento – Michael Connelly

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Recensione a cura di Elia Banelli

 

Per definizione, il thriller si distingue dai generi letterali del giallo e del noir. Il giallo classico di solito vede il detective come protagonista, nel ruolo di risolutore ufficiale del delitto, ponendo al centro la ricerca scientifica e le indagini legate alla scoperta del proverbiale assassino, mentre il noir si caratterizza per connotati più “politici”, quindi sensibile alle dinamiche intrinseche nella società.

La regola base del thriller “americano” è invece puntare soprattutto sull’azione, su una narrazione ritmata con l’utilizzo di un linguaggio diretto e asciutto, senza eccessivi virtuosismi letterari.

La città in cui è ambientata la storia fa per lo più da sfondo decorativo, una sorta di non-luogo, potrebbe essere Tokyo o Reggio Calabria e avrebbe poca importanza. Il serial killer – così avviene di solito per i personaggi “malvagi” – si colloca al centro della trama, quasi sullo stesso piano del detective che gli dà la caccia. Spesso le vicende sono caratterizzate da uno sfondo “cupo”, sanguinario, ai limiti della violenza pura e della suspense al fulmicotone.

Michael Connelly riesce in parte a sovvertire i canoni tradizionali del genere. I suoi libri sono sì “thriller all’americana” ma nello stesso tempo il detective, assume un ruolo decisivo nel portare a termine le indagini e ristabilire “l’equilibrio” a seguito di un delitto o un atto deplorevole.

Inoltre, la metropoli in cui sono ambientati i suoi romanzi, la lucente e oscura Los Angeles, si distingue e fa emergere le sue peculiarità, dai quartieri ai palazzi, dai tramonti sull’oceano agli sterminati e trafficati nastri di cemento e infidi sottopassaggi.

La bionda di cemento” non è una pubblicazione recente. La prima edizione del romanzo, il terzo della serie con protagonista il celebre detective della Polizia di Los Angeles, Harry Bosch, risale al 1994. Un motivo in più, se qualcuno purtroppo se l’è perso, per recuperare. Se non altro perché questo libro -insieme ai successivi “La città delle ossa” e “Il cerchio del lupo” – ha ispirato la brillante serie tv dedicata all’intramontabile Harry Bosch, disponibile su Amazon Prime Video.

Senza entrare troppo nei dettagli della storia – per quello potete leggere la trama e soprattutto sfogliare il romanzo – si può affermare che Michael Connelly riesce nella difficile impresa di coniugare sapientemente i tre generi letterari di cui sopra, riuscendo a non stancare il lettore, anche se bisogna mettere in conto un minimo di interesse per il poliziesco giudiziario e i tempi un po’ dilatati di un normale processo all’interno di un’affollata aula di tribunale, a cui è riservato uno spazio rilevante.

Per il resto non mancano i personaggi femminili con il loro carico di fascino, determinazione e sensualità e descrizioni fisiche da antologia. (“Gli lanciò un’occhiata feroce. Aveva occhi scuri come mogano bruciato”; “Spremette qualche goccia di collirio negli occhi e si avvicinò allo specchio per osservarli. Ancora cerchiati di rosso per la mancanza di sonno, l’iride scura come ghiaccio sull’asfalto”).

Immancabili sono le riflessioni sulla vita e le trame oscure che circondano gli esseri umani. (“La speranza era la linfa del cuore. Senza quella non c’era nulla, solo oscurità”; “Bosch sentiva che doveva continuare a muoversi, per riuscire a pensare. Era l’unico modo per impedirsi di affondare nell’orrore che andava addensandosi nella sua mente”; “Quella sgradevole sensazione che insorgeva all’avvicinarsi dell’ignoto (…) Era la paura che schiudeva i suoi petali come una rosa nera in fondo al suo stomaco”).

Inevitabili infine, i tormenti esistenziali del detective che non riesce, o in fondo non vuole, a conciliare la vita da sbirro di strada con una normale relazione sentimentale che necessita dell’elemento determinante e opportuno della “presenza”, mai così messa a rischio dal succedersi di continui pericoli e casi irrisolti. (“Quella situazione di stallo faceva comodo: gli consentiva di rimandare ogni decisione sul futuro della relazione”; “E lui voleva evitare ancora per un po’ di sprofondare nel luogo buio della solitudine”).

Manca qualcosa? Ah sì, il “Fabbricante di bambole”, ovvero l’assassino che riemerge dal passato di Bosch, lo scoprirete solo nelle ultime pagine. Per i più bravi e avveduti, anche a metà della storia.

 

 Trama

 

Il Fabbricante di bambole: sceglieva le sue vittime nei quartieri malfamati di Los Angeles, le strangolava e le truccava come fossero bambole sorridenti. La polizia aveva cercato di catturarlo e, alla fine, Bosch se l’era trovato di fronte. L’uomo, disturbato nel sonno, aveva infilato una mano sotto il cuscino e Bosch gli aveva sparato, uccidendolo. Quattro anni dopo, Bosch si trova in un’aula di tribunale in un ruolo per lui insolito: quello dell’accusato nel processo per omicidio intentatogli dalla vedova. Ma quando viene informato del ritrovamento di un nuovo cadavere, quello di una bionda sepolta sotto una colata di cemento e truccata come le undici vittime del Fabbricante di bambole, non può non chiedersi se l’uomo che ha ucciso non fosse innocente

 

 

Dettagli prodotto

 

Copertina flessibile: 464 pagine

Genere: Thriller

Editore: Piemme (25 maggio 2015)

Collana: Pickwick

Lingua: Italiano

ISBN-10: 8868367386

ISBN-13: 978-8868367381