ARTHUR CONAN DOYLE
Se non necessita di approfondite presentazioni il personaggio di Sherlock Holmes – forse il più famoso indagatore di tutti i tempi – qualche notizia in più va spesa invece per il suo inventore, quell’Arthur Conan Doyle (1859-1930) giovane medico scozzese, allievo a Edimburgo del professore di chirurgia Joseph Bell, sostenitore del metodo deduttivo nella formulazione della diagnosi terapeutica. E non c’è dubbio che l’abilità di Bell di dedurre, da minimi dettagli, i caratteri psico-fisiologici dei vari pazienti abbia non solo affascinato il giovane Doyle, ma anche ispirato le caratteristiche principali di quel Sherlock Holmes destinato a nascere solo nel 1887.
Non va taciuta, comunque sia, la predestinazione di Arthur alla creatività, tenuto conto che la vena artistica era già patrimonio familiare dei Doyle: oltre al padre Charles, notevole pittore a tempo perso, John e Richard – rispettivamente nonno e zio – erano caricaturisti affermati, e il prozio Michael Conan (da cui il secondo nome del Nostro, in celtico “il capo”) era critico d’arte ed editore dell’”Art Journal”.
“Ho avuto una vita che per varietà romanzesca potrebbe, credo, essere difficilmente superata (…) costellata d’avventure d’ogni genere” ebbe a dire lo stesso scrittore nelle sue Memorie del 1924. E in effetti, educato dai gesuiti in un college del Lancashire (ma approdato da adulto all’agnosticismo), laureato in medicina ma innamorato di Gaboriau, di Poe e del suo Dupin, imbarcato come medico di bordo su una baleniera nell’Atlantico, tra i ghiacci dell’Artico e in Africa occidentale, titolare senza fortuna di un proprio ambulatorio a Southsea, dedito nelle tante ore forzatamente libere a elaborare problemi polizieschi, Conan Doyle partorì finalmente il suo detective, in sordina, in Uno studio in rosso, apparso nel novembre 1887 nel numero 28 del “Beeton’s Christmas Annual”. In sordina, perché Arthur vendette il copyright del suo romanzo all’editore Ward, Lock & Co. per 25 sterline e mai, a quanto è dato sapere, ne ricavò a quell’epoca un penny in più. Tuttavia di lì a poco Sherlock Holmes ritornò, e stavolta alla grande, ne Il segno dei quattro, apparso negli Stati Uniti sul celebre “Lippincott’s Magazine” di Philadelphia nel febbraio del 1890 e accolto dal pubblico inglese e americano con un favore ineguagliato nella storia della letteratura poliziesca.
Il successo editoriale di questo romanzo fu tale da indurre Conan Doyle a maturare l’idea di un unico protagonista che, agendo in una serie di racconti, riuscisse a legare il lettore a una determinata rivista, superando il vecchio sistema del romanzo d’appendice a puntate. Iniziò così, ottimamente retribuita, la collaborazione col noto mensile illustrato “Strand Magazine”, per cui scrisse una prima serie di dodici racconti, poi raccolti sotto il titolo Le avventure di Sherlock Holmes (1892), e una seconda serie di altri undici, pubblicata in seguito come Le memorie di Sherlock Holmes (1894). Nell’ultimo di questi – Il problema finale (del 1893) – l’autore, ormai stanco del suo eroe e prigioniero della sua ombra, lo fa precipitare in fondo alle cascate di Reichenbach, avvinghiato in un mortale abbraccio col suo acerrimo nemico, il professor Moriarty. La reazione del pubblico al “delitto” di Conan Doyle fu tale però che l’autore fu quasi costretto a comporre un terzo romanzo con Sherlock Holmes, forse il migliore, Il mastino dei Baskerville (1902), seguito da una serie di tredici racconti riuniti sotto il titolo Il ritorno di Sherlock Holmes (1905). Inutilmente Conan Doyle tentò via via di avventurarsi in altri territori, dal teatro al romanzo storico, dalle conferenze letterarie al giornalismo di guerra e alla saggistica. Nel 1915 fu indotto – dal pubblico e dal bisogno – a scrivere un quarto e ultimo romanzo holmesiano, La valle della paura, cui fecero seguito le ultime due raccolte, L’ultimo saluto di Sherlock Holmes (otto racconti, 1917) e Il taccuino di Sherlock Holmes (dodici racconti), nel 1927, tre anni prima della morte.
È indubbio che Sherlock Holmes si ponga come un modello destinato a esercitare un’influenza decisiva su tutta la narrativa poliziesca posteriore: quello del detective cerebrale onnipotente, capace di ricostruire con logica impeccabile e strabiliante acutezza psicologica i casi più complessi e apparentemente insolubili, tanto da prefigurare un nuovo tipo di Giallo, detto “scientifico”, e una nuova linea di investigatori che proseguirà ben presto col Philo Vance di Van Dine e col Poirot di Agatha Christie. Anche il personaggio-spalla rappresentato dal noto dottor Watson – aiutante e cronista insieme – che detiene il ruolo di narratore interno e anche il compito di far risaltare (con la sua mediocrità di uomo comune) l’inarrivabile acume del superuomo Holmes, sarà ripreso dagli analoghi sergente Heath (rispetto a Philo Vance) e capitano Hastings (affiancato a Poirot).
È certo, poi, che se la figura di carta di Holmes è stata influenzata da quella in carne e ossa del professor Bell, tanto nei modi operandi quanto nel fisico (“occhi acuti, penetranti, naso aquilino”, ecc.), nel personaggio di Watson l’autore vide se stesso, nel modo palesemente autobiografico che ebbe a testimoniare a suo tempo Hugh Greene.
Benché abbia creato un personaggio ancor oggi famosissimo (molti fans, si sa, hanno continuato per decenni a scrivere a Sherlock Holmes al 221-B di Baker Street), secondo diversi critici Conan Doyle fu uno scrittore mediocre e dagli intrecci spesso poco plausibili, tanto che solo una volta, nel Mastino dei Baskerville, sarebbe riuscito a superare brillantemente il problema di una detective story di ampio respiro. Gli mancherebbe insomma, come a molti suoi contemporanei, una soluzione finale convincente dei crimini e della detection da lui così vivacemente descritti. Lo stesso Uno studio in rosso dell’esordio appare oggi troppo squilibrato tra una prima parte brillante e tesa e una seconda debole e convenzionale (quella delle avventure ambientate tra i Mormoni).
Fa eccezione, s’è detto, Il mastino dei Baskerville, notevole esempio di romanzo poliziesco a suspense, secondo la definizione critica che Todorov diede nella sua Poetica della prosa: l’inchiesta, cioè, da un lato propone il modello epistemologico della ricerca scientifica, ma senza eliminare la componente misteriosa e surreale della storia. Così il lettore legge con attenzione e tensione cercando di ricostruire dagli indizi l’oscura morte di sir Charles, ma ancor più si sente attratto dalla fosca leggenda del mastino, che ricade come una maledizione sul casato dei Baskerville e che si proietta minacciosa sul suo ultimo erede, sir Henry. Così il passato e il futuro tengono acceso l’interesse, in un gioco dialettico di ricostruzione logica e di partecipazione emotiva.
Nonostante i difetti, l’eroe di Conan Doyle resta ancor oggi uno degli investigatori più conosciuti, se non il detective per antonomasia, spesso addirittura protagonista di racconti polizieschi di tanti autori contemporanei. Tali apocrifi di Sherlock datano in special modo dalla fine del 2000, quando i diritti d’autore sul personaggio sono scaduti in Europa. Secondo i cultori del genere un apocrifo non dovrebbe contraddire gli scritti di Conan Doyle e dovrebbe rispettare la realtà storica dell’epoca in cui sono ambientate le avventure di Holmes. La prima serie di racconti ufficialmente approvata dagli eredi fu quella firmata nel 1954 dal figlio Adrian Conan Doyle in collaborazione con il celebre giallista John Dickson Carr, The Exploits of Sherlock Holmes (in italiano Le imprese di Sherlock Holmes e Nuove imprese di Sherlock Holmes).
Dopo Il dossier Singleton di John Dickson Carr o L’innamorata di Sherlock di Esther L. Nasch, gli apocrifi ebbero nuovo impulso nella seconda metà degli anni Sessanta dopo la pubblicazione di Uno studio in nero di Ellery Queen, dove l’autore finge di essere entrato in possesso di un manoscritto inedito del dottor Watson su un’indagine di Holmes riguardante Jack lo Squartatore. Senza pretese di esaustività, ricordiamo ancora La soluzione sette per cento di Nicholas Meyer (1974) – in cui si immagina quello che sarebbe potuto essere l’incontro del secolo tra Sherlock Holmes e Sigmund Freud, con una trama perfetta e uno stile degno, secondo alcuni critici, delle migliori pagine di Conan Doyle – o Anarchici e siluri di Joyce Lussu (1982), in cui il detective è alle prese con un mistero nell’Adriatico e affronta un intricato caso di spionaggio internazionale insieme a un piccolo orfano adottato da un gruppo anarchico. Dal 1994 al 2000, poi, Laurie King compose cinque romanzi ambientati negli anni Venti, aventi come protagonista e narratrice Mary Russel, giovane allieva e poi moglie di Sherlock Holmes; mentre un altro King, il ben più famoso Stephen, nella raccolta Incubi e deliri del 1999, inserì un racconto, Il caso del dottore, in cui Watson – quarant’anni dopo la morte di Sherlock e alla vigilia dei propri cent’anni – racconta di come sia riuscito un’unica volta a battere Holmes sul tempo nella soluzione di un caso. Per non tacere di Shane Peacock, canadese, autore dal 2007 di alcuni libri per ragazzi il cui protagonista è appunto Sherlock da giovane.
E in Italia? Oltre a Rino Cammilleri e al suo notevole Sherlock Holmes e il misterioso caso di Ippolito Nievo, va ricordato almeno, per i suoi romanzi, il benemerito Enrico Solito, nome di spicco dell’Associazione Sherlockiana Italiana denominata Uno studio in Holmes, e i vari scrittori nostrani dell’antologia Sherlock Holmes in Italia, uscita nel dicembre 2016 nella collana Il Giallo Mondadori Sherlock: una collana specifica, a cadenza mensile, riservata in esclusiva a romanzi o racconti apocrifi di Sherlock Holmes.
E altre informazioni sulla caratterizzazione apocrifa di Holmes possono provenirci dalla celebre frase “Elementare, Watson!”, mai pronunciata in questa forma nelle versioni originali dell’autore (un po’ come “Il fine giustifica i mezzi”, mai scritta dal nostro Machiavelli), ma in realtà inventata dall’attore statunitense William Gillette per il dramma teatrale Sherlock Holmes del 1899, scritto in collaborazione con lo stesso Conan Doyle, e resa popolare dal cinema (a partire da un film del 1907, The Return of Sherlock Holmes). Così come ancora Gillette – che interpretò Holmes sul palco, si dice, per oltre 1300 volte – usò per primo i notissimi (e altrettanto apocrifi) deerstalker e calabash del detective, ossia il cappellino da cacciatore e la pipa ricurva.
È nota la smisurata fortuna di Sherlock Holmes presso i media di ogni tipo. Tralasciando ovviamente fumetti, videogiochi e serie TV animate (che comunque si impadronirono molto presto del personaggio), la storia cinematografica di Holmes risulta partire da lontano. Nel 1908 comincia una serie di dodici film danesi one reel con Forrest Holger-Madsen protagonista, seguiti da due film tedeschi nel 1910, da sei francesi nel 1912 (con una seconda serie l’anno dopo), e da A Study in Scarlet (1914) e The Valley of Fear (1916) in sei rulli di un’ora ciascuno in Gran Bretagna. Si salta al 1922, quando John Barrymore e Roland Young come Watson interpretano Sherlock Holmes, basato su una pièce di Gillette. Ancora nel 1922 Maurice Elvey dirige The Hound of Baskervilles, seguito da oltre venticinque film in due rulli con Ellie Norwood protagonista. Nel 1929 esce il primo film sonoro holmesiano, The return of Sherlock Holmes, con Clive Brook, presto riapparso nell’hollywoodiano Sherlock Holmes (1932), con Reginald Owen/Watson che nel 1933 indossa gli abiti di Holmes in A Study in Scarlet. Nel frattempo Arthur Wontner, al fianco di Ian Fleming/Watson, aveva interpretato dal 1931 al 1936 cinque film britannici, così come uno a testa avevano fatto Raymond Massey (1931) e Robert Rendel (1932). Nel 1939 è la volta di Sherlock Holmes e il cane dei Baskervilles, prodotto dalla Fox, il primo Holmes di Basil Rathbone, che ha al suo fianco il Watson di Nigel Bruce. Fu seguito da Le avventure di Sherlock Holmes (1939) di Alfred Werker, ma, dato il tiepido successo commerciale, la 20th Century Fox passò la mano alla Universal che, trasposta l’azione in abiti del ‘900, mise in cantiere dal 1942 una serie di dodici film in cinque anni, sempre con la coppia Rathbone-Bruce. Dopo un periodo di silenzio, nel 1959 Peter Cushing e André Morell furono protagonisti di un rifacimento di The Hound of Baskervilles diretto da Terence Fisher, passato alla storia come il primo a colori. Nel 1962 Christopher Lee e Thorley Walters interpretarono Holmes e Watson nel film tedesco, sempre di Fisher, Sherlock Holmes-La valle della morte, e nel 1965 toccò a John Neville impersonare il detective nell’inglese Sherlock Holmes: notti di terrore, di James Hill.
Gli anni ’70 segnano una svolta. Comincia Billy Wilder con La vita privata di Sherlock Holmes (1970), con Robert Stephens che ricorre alla cocaina nei momenti di depressione o di dubbio, e sulla stessa scia si pone Sherlock Holmes: soluzione sette per cento (1976), di Herbert Ross, in cui Nicol Williamson/Holmes va in analisi sul lettino di Sigmund Freud in persona. Intanto col personaggio si cimentano George C. Scott (1970) e Larry Hagman (1976), Gene Wilder ne fa una parodia con Il fratello più furbo di Sherlock Holmes (1975), e in Assassinio su commissione (1978) Christopher Plummer/Holmes indaga sui crimini e sull’identità di Jack lo Squartatore, aiutato da James Mason/Watson più bravo di lui. In Piramide di paura (1985) di Barry Levinson, Holmes e Watson ragazzi sono allievi di un college alle prese con una setta criminale.
E per concludere con quel cinema domestico che è ormai diventata la televisione, non vanno dimenticati i serial, alcuni dei quali notevoli. Oltre a quelli di Stewart Granger (1972), Roger Moore (1977), Geoffrey Whitehead (1979), Peter Cushing (1984) e Jeremy Brett (1984-85), ricordiamo già prima, in Italia, le due avventure (La valle della paura, L’ultimo dei Baskerville) in tre puntate ciascuna, prodotte dalla RAI nel 1968 con la regia di Guglielmo Morandi e le interpretazioni di Nando Gazzolo/Holmes e Gianni Bonagura/Watson. Più di recente (1996-1999) la TV canadese YTV ha trasmesso Le avventure di Shirley Holmes, pronipote dodicenne del grande Sherlock da cui ha ereditato le doti investigative (in onda da noi su RAI 1), e nel 2000 la BBC ha prodotto la serie Murder Rooms. Gli oscuri inizi di Sherlock Holmes, incentrata sulle figure del giovane Arthur Conan Doyle e del professor Joseph Bell, interpretati rispettivamente da Charles Edwards e Ian Richardson.
Infine, varcato il millennio, le innovazioni sperimentali si accentuano. A partire dal 2010 la BBC One ha trasmesso la serie Sherlock, ispirata sì alle opere di Conan Doyle ma ambientata nella Londra odierna, con Benedict Cumberbatch e Martin Freeman nelle parti dei due protagonisti, mentre dal settembre 2012 la CBS ha mandato in onda la serie Elementary, rivisitazione in chiave modernissima e liberissima di alcune indagini di Sherlock spostate da Londra a New York, dove il detective è interpretato da Jonny Lee Miller, mentre il dottor Watson, rivisto in versione femminile col nome di Joan Watson, è impersonato da Lucy Liu. Il tutto però anticipato, sulla strada dell’innovazione più sfrenata, dal cinematografico Sherlock Holmes di Guy Ritchie (2009), frenetico blockbuster d’azione della Warner, con un Holmes piccoletto energico e muscoloso interpretato da Robert Downey Jr., e un dottor Watson elegante alto e bello impersonato da Jude Law. Inutile dire che un film come questo – così divertente nella sua irriverenza, scattoso, sorprendente e inverosimile nella sua dismisura – ha avuto uno straordinario successo di pubblico anche per (o proprio per) il suo porsi programmaticamente contro tutta una tradizione.