Intervista per Gialloecucina a cura di Massimo Padua
Non mi lascio certo sfuggire l’opportunità di fare qualche domanda a Matteo Ferrario, a mio parere uno degli autori più interessanti e promettenti degli ultimi tempi. Dopo alcuni racconti editi in antologie, ha esordito nel 2014 con il romanzo Buia per Fernandel e, sempre con lo stesso editore ravennate, ha poi pubblicato Il mostro dell’hinterland nel 2015.
Il personaggio di Buia non è nato con il romanzo edito da Fernandel, ma da un racconto più breve con il quale ti sei distinto al concorso Subway-Letteratura. Cosa ti ha ispirato l’idea e come sei arrivato a pensare di ampliare la storia?
Il primo elemento che ho avuto a disposizione è stato il nome della protagonista, circa otto anni fa. Una sera mia moglie, che è un’insegnante, mi stava raccontando qualcosa di divertente capitato a scuola a una bambina di nome Guia, ma mentre me ne parlava, non so bene per quale motivo, a me è parso di sentire una b al posto della g. Buia, ho pensato: un nome assurdo, ma anche evocativo. Quale personaggio potrebbe portare un nome simile? La prima risposta me la sono data qualche mese più tardi, quando ho iniziato a scrivere di una bambina che viene concepita per sbaglio da genitori giovanissimi, e per un errore dell’impiegata dell’ufficio anagrafe si ritrova questo nome in cui è racchiuso già il suo destino, ma anche il fascino che le sue ferite eserciteranno sul narratore: un timido coetaneo che la conosce sui banchi di scuola e poi la ritrova intorno ai trent’anni. Questi elementi erano già contenuti nel racconto, poi pubblicato in volumetto e distribuito nelle stazioni della metro italiane in grandi tirature, come quelli degli altri vincitori di Subway. Ma il personaggio di Buia aveva ancora qualcosa da dirmi. Me ne sono accorto a cinque anni di distanza, quando, al termine del lungo lavoro su un altro romanzo poi rimasto inedito, ho ripreso a scrivere di lei. Più che ampliare la storia le ho dato respiro, e ho anche assaporato il piacere di restare più a lungo in sua compagnia. Per tutte queste ragioni era inevitabile, credo, che Buia fosse il mio libro d’esordio.
Leggendo i tuoi romanzi, la sensazione che si percepisce è che per te siano molto importanti l’ambientazione e, soprattutto, l’aderenza alla realtà. È una tua precisa scelta?
Più che nel realismo e nell’ambientazione, credo nel rapporto di fiducia che si crea tra il testo e il lettore. È un aspetto a cui sono particolarmente sensibile quando leggo: mi capita a volte di imbattermi in storie dall’impianto totalmente realistico, a cui tuttavia non credo, e viceversa di fidarmi senza riserve di un narratore che mi sta raccontando una vicenda surreale, fantascientifica o di magia.
Credo che tutto passi dalla voce narrante: è quella che decide se il lettore ti crederà o meno, e la parte più importante del processo è trovarla, e poi lavorarci finché non diventa l’unico modo possibile in cui raccontare quella storia, il suo battito naturale, per così dire. Il mondo narrativo dei miei romanzi, almeno in partenza, si potrebbe definire realistico, ma il primo è anche una sorta di fiaba nera, mentre il secondo è la versione dei fatti data da un uomo che si trova in carcere per un delitto di quelli da prima pagina, e in entrambi i casi è la voce narrante a decidere se sia vero o meno ciò che viene raccontato.
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